No surrender

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  1. Fabula
     
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    La seguente one shot era giá stata pubblicata su Efp col mio account (sono The Writer Of The Stars) e volevo riproporlo qui...spero vi piaccia. ;)

    Genere: Angst, Malinconico, Song-fic | Stato: completa
    Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Freddie Mercury, Roger Taylor
    Note: OOC | Avvertimenti: nessuno

    Nota: tutto ciò che leggerete è frutto della mia immaginazione, i fatti narrati non sono davvero avvenuti (o perlomeno, non che io sappia) i Queen, Roger Taylor e Freddie Mercury non mi appartengono.



    Well, we bursted out of class
    Had to get away from those fools
    We learned more from a 3-minute record, baby
    Than we ever learned in school

    Fu forse solo in quel momento, quando la pesante porta alle sue spalle si chiuse con un tonfo assordante, che si rese conto di aver commesso un’ enorme cazzata. Probabilmente non era stata una grande genialata farsi cacciare dalla lezione dopo nemmeno un mese dall’inizio dell’Università, ma infondo non era stata proprio colpa sua. Insomma, che poteva farci lui se non sopportava quegli idioti che aveva per compagni di corso alla facoltà di odontoiatria del London Hospital Medical College? Odiava i figli di papà, da sempre, e soprattutto odiava dover sorbirsi gli imperiosi monologhi del suo anziano professore di chirurgia. Fino a pochi minuti prima l’idea di potersene uscire in anticipo dall’aula lo allettava parecchio ma ora, sbattuto fuori dalla prestigiosa classe, si rese conto che forse avrebbe potuto evitare di esclamare quanto quella lezione fosse noiosa nel bel mezzo della spiegazione dell’insegnante. Ma d’altro canto provò a vedere il bicchiere mezzo pieno, tentando di addolcire la pillola; non lo aveva mica cacciato a calci, lo aveva solo << invitato “cortesemente” ad uscire dall’aula e a rientrare quando avrebbe trovato un argomento più appassionante per la sua dotta figura. >> Ecco, già dicendo così suonava molto meglio nella sua mente. Con un minuscolo sorrisetto sospirò di sollievo, realizzando che nonostante quel piccolo “incidente” almeno ora aveva la giornata libera. Con un sorriso rilassato afferrò la borsa a tracolla che aveva fatto scivolare in terra, prendendo così a camminare con passi dinoccolati e tranquilli verso l’uscita dell’edificio. Non appena spalancò il pesante portone, i suoi occhi annebbiati dall’ebbrezza di una tranquilla giornata in compagnia dei suoi dischi e della sua batteria, si offuscarono di delusione e frustrazione, osservando le pesanti gocce di pioggia ticchettare con insistenza sulla strada dinanzi a lui. Sbuffò annoiato, chiedendosi perché la pioggia dovesse rovinare sempre tutto e imprecando contro i nuvoloni scuri che si stagliavano sopra la sua testa.

    “Bel tempo, eh?” ad un tratto sobbalzò spaventato, colto di sorpresa da quella voce. Attese che i battiti del suo cuore riassumessero una frequenza perlomeno decente, prima di voltare lentamente il capo verso destra, dove aveva d’un tratto avvertito una presenza. Al suo fianco, con la visuale offuscata dalla pioggia, si stagliava la figura elegante di un ragazzo, probabilmente della sua età. Lunghi capelli scuri ad incorniciare il profilo quasi reale del giovane e denti strani, fortemente sporgenti. Era un bel ragazzo, indubbiamente affascinante. Voltò leggermente il capo, scontrandosi con gli occhi azzurri del povero batterista i cui vestiti si stavano inzuppando d’acqua. Il moro lo fissò incuriosito, leggermente interrogativo.

    “Sigaretta?” chiese, accennando al mozzicone stretto tra le sue dita. Il ragazzo sembrò riprendersi dallo stato catatonico in cui era sprofondato, accettando l’offerta.
    Portandosi la sigaretta alla bocca fece un tiro profondo, rilassandosi un poco. Il ragazzo al suo fianco non aveva detto una parola dalla proposta e ora stava finendo di fumare la sua sigaretta con tranquillità, in silenzio e ascoltando l’incessante rumore della pioggia scrosciante. Fece un ultimo tiro profondo, liberando poi in aria il fumo in un gesto elegante e tremendamente regale.

    “Beh, io vado.” Esclamò d’un tratto il moro, spegnendo il mozzicone di sigaretta in terra con un piede. Il batterista alzò lo sguardo dal marciapiede che aveva preso a fissare da diversi minuti, osservando il moro allacciarsi la giacca leggera e ficcare le mani nelle tasche. La loro conversazione era durata che qualche minuto, se conversazione si poteva chiamare quel susseguirsi di boccate di aria e inalazioni di nicotina.

    “è stato un piacere.” Continuò il ragazzo, sorridendo con quei denti enormi. Per diversi attimi il biondo lo guardò prendere a camminare verso la strada principale, immobile con la sigaretta ancora stretta tra i denti.

    “Comunque, io mi chiamo Roger!” urlò d’un tratto il biondino, come colto da una folgorazione.
    Il moro si voltò, guardandolo con un piccolo sorriso.

    “Farrokh … ma preferisco Freddie.” Disse,prima di riprendere a camminare per la sua strada.

    “Freddie …” ripeté tra sé Roger, osservando il moro con cui aveva condiviso una sigaretta allontanarsi velocemente sotto la pioggia. E senza sapere perché, avvertì dentro di sé la sensazione che quella non sarebbe stata l’ultima volta in cui lo avrebbe visto.

    Tonight I hear the neighborhood drummer sound
    I can feel my heart begin to pound
    You say you're tired and you just want to close your eyes
    And follow your dreams down



    “Io. detesto. I. traslochi.” Roger accennò un leggero sorrisetto, constatando quanto l’amico potesse essere pigro in alcuni casi.

    “Andiamo, Freddie, sono solo un paio di scatoloni.” Esclamò il biondino, poggiando in terra l’ennesima scatola della giornata. Il moro lo fulminò con lo sguardo, stranito.

    “Un paio di scatole? Tesoro, seriamente, tu hai qualche problema.” Esordì il moro con nonchalance, gettando lo scatolone che aveva tra le braccia in terra. Roger ridacchio, alzando gli occhi al cielo, esasperato: non sarebbe cambiato mai.

    “Comunque, per tua immensa gioia, ti annuncio che qui abbiamo finito.” Esclamò Roger, osservando gli scatoloni sparsi per l’appartamento. Gli occhi di Freddie si illuminarono di una luce incredibile, che Roger sapeva avere un solo nome: riposo.

    “Finalmente, non ne potevo più di …”

    “Abbiamo finito di portare gli scatoloni. Ora dobbiamo sistemare quello che c’è qui dentro.” Lo interruppe Roger con aria serafica. La mascella di Freddie si spalancò paurosamente, rischiando di andare a toccare il pavimento.

    “Stai scherzando, spero.”

    “Freddie, come pensi che ci si possa trasferire in un nuovo appartamento senza nemmeno sistemare le cose che avevi nel vecchio?” chiese con ovvietà il biondino, cominciando a rovistare tra uno dei suoi scatoloni. Udì l’amico sbuffare rumorosamente e sorrise divertito, pensando tra sé e sé quanto quel ragazzo fosse strano. Erano, ufficialmente da quel giorno, nuovi compagni d’appartamento e dulcis in fundo, gestivano un piccolo negozio di abiti usati nel mercato di Keningston da pochi giorni ormai. Intento a rovistare tra lo scatolone con i suoi libri, Roger alzò d’un tratto la testa, corrugando gli occhi confusi. Il suo udito aveva percepito delle vibrazioni, suoni che un batterista come lui aveva subito associato ad una batteria. Era un ritmo semplice, molto tranquillo, si sarebbe detto da principiante. Roger spostò lo sguardo sulle pareti dell’appartamento, constatando che il rumore provenisse dall’abitazione adiacente e che il loro vicino stesse provando a suonare la batteria. Sorrise a metà,pensando alla sua di batteria, che lo aspettava per essere montata e sistemata nella sua nuova stanza. Con una nuova carica si alzò in piedi, esclamando a gran voce:

    “Bene Freddie, abbiamo un bel po’ di lavoro da fare.” Si scoprì però parlare da solo, perché al suo fianco non vi era alcun cantante egocentrico e inspiegabilmente pigro, bensì lo stipite della porta. Facendo un pericoloso slalom tra gli scatoloni, Roger si mosse per l’appartamento, cercando con gli occhi l’amico. Lo trovò poco dopo in una delle due stanze da letto, sdraiato sul materasso e con gli occhi serrati.

    “Freddie, si può sapere che diavolo stai facendo?!” esclamò irato, incrociando le mani al petto in un gesto che, con un brivido di terrore, gli ricordò vagamente sua madre. Il ragazzo sdraiato sul letto mugugnò qualcosa di indefinito, rannicchiandosi a sé come un riccio.

    “Andiamo, ancora cinque minuti …” biascicò con la voce impastata dal sonno. Roger alzò gli occhi al cielo, esasperato.

    “Freddie, ti do due minuti di tempo per alzarti da quel letto e venire di là ad aiutarmi con gli scatoloni.” Tuonò serio, prima di allontanarsi a grandi falcate, raggiungendo nuovamente il salotto.

    “Andiamo, sono stanco, lasciami dormire!” gli urlò di rimando Freddie da quella che praticamente era divenuta la sua stanza. Roger si abbassò, cominciando ad estrarre i libri da uno degli scatoloni, consapevole che Freddie non si sarebbe presentato a mettere in ordine né tra due minuti, né mai.


    Well, we made a promise we swore we'd always remember
    No retreat, baby, no surrender
    Like soldiers on the winter's night
    With a vow to defend
    No retreat, baby, no surrender



    “Non è possibile, non ne va bene una!” Roger fece il suo ingresso nell’appartamento strepitando come un dannato, seguito a ruota da Freddie più o meno nelle sue stesse condizioni. Era assurdo che nessuno, ma proprio nessuno, fosse disposto a puntare la propria immagine su quei quattro ragazzi dalle doti tremendamente interessanti, con quel loro nome forse un po’ pretenzioso che rievocava la regina. Roger più di tutti sembrava soffrire di quei continui rifiuti dalle case discografiche, sentiva addosso il peso di aver voluto puntare tutto su un delirante sogno di gloria che ancora stentava a decollare. Freddie aveva capito lo stato d’animo dell’amico, e come se lo aveva capito, provava le stesse identiche cose. Ma sapeva quanto l’animo di Roger fosse complesso, quanti pensieri corressero dentro quella testa bionda e scapestrata, ma dall’intelligenza pratica e realistica.
    Roger si gettò a peso morto sul vecchio divano traballante, portandosi la testa tra le mani e scuotendola con veemenza. Freddie lo osservò per numerosi attimi, in silenzio, sedendosi al suo fianco.

    “Hey” lo richiamò solo dopo pochi minuti, come a volergli dare il tempo di sfogare la rabbia. Roger alzò lo sguardo, puntando gli occhi azzurri colmi di rabbia e delusione in quelli scuri e rassicuranti dell’amico.

    “Nessuna resa, d’accordo?” lo incitò retorico il cantante, guardandolo negli occhi. Roger sembrò riflettere diversi attimi, senza parlare.

    “D’accordo.” Esordì dopo diversi secondi con voce stanca, accennando un minuscolo sorriso. Freddie ricambiò immediatamente, curvando anche lui le labbra in una lieve increspatura. D’altronde, lo sapeva che la pazienza non era la più grande virtù di Roger.

    Well, now young faces grow sad and old
    And hearts of fire grow cold
    We swore blood brothers against the wind
    And I'm ready to grow young again

    And I hear your sister's voice calling us home
    Across the open yards
    Well even we can cut someplace of our own
    With these drums and these guitars




    Roger sospirò a fondo, chiudendo gli occhi. Amava Londra, la grande città aveva sempre quel fascino misterioso e intoccabile, ma niente era come casa. Gli era mancata la Cornovaglia, Truro, la brughiera e i campi aperti che avevano fatto da sfondo alla sua infanzia. Era bello tornare lì ogni tanto, rivivere con la mente e con il corpo ricordi di un bambino dai capelli biondi e lo spirito ribelle che era stato.

    “Però, è proprio bello qui.” Sorrise tra sé all’udire quella voce estasiata. Aveva invitato Freddie ad unirsi a lui per quella breve visita ai suoi genitori, per quel ritorno a casa tanto atteso dalla sua famiglia, e Freddie era stato ben felice di accettare l’invito, curioso di conoscere i posti incantevoli che il suo migliore amico tanto predicava.

    “Già. Lo ammetto, mi mancava proprio casa.” Esclamò Roger, sistemandosi meglio alla corteccia della quercia ai piedi della quale si era seduto, affiancato dall’amico. Inspirando profondamente, il batterista si rilassò, godendosi il frinire delle cicale e il tepore del sole calante in quel tardo pomeriggio d’inizio estate.

    “Roger! Roger!” con una punta di fastidio, Roger udì la voce dia sua sorella provenire dalla loro vecchia casa richiamarlo con insistenza, in un flebile grido attraverso i campi aperti. Era l’ora di cena, se n’era accorto, ma se c’era una cosa che non sarebbe mai cambiata, quella era la voce di sua sorella richiamarlo a casa la sera mentre lui era disperso per gli immensi campi.

    “Non è tua sorella?” chiese Freddie dubbioso, udendo anch’egli quella voce femminile. Roger arricciò leggermente il naso, facendo una smorfia infastidita.

    “Sì, è lei. Sicuramente ci starà richiamando per la cena.” Spiegò, senza però accennare il minimo movimento. Freddie lo osservò per un attimo, gli occhi chiusi e l’espressione rilassata.

    “Oh.” Sussurrò solamente tra sé, capendo che Roger non aveva la benché minima intenzione di alzarsi e andare a casa. Non ora. Si sistemò meglio, poggiandosi comodamente alla corteccia e imitando l’amico al suo fianco, chiuse gli occhi, ispirando profondamente una boccata d’aria fresca. Ascoltò per lunghissimi minuti il canto flebile degli usignoli, il frinire delle cicale, il silenzio divenuto quasi utopico dal momento che quel successo che tanto bramavano sembrava essere finalmente arrivato. Era una bella sensazione starsene lì, tra l’erba alta e profumata di natura,ascoltando il rumore del silenzio insieme al proprio migliore amico e pensando, abituati alla routine caotica che sapeva di Inferno, di aver fatto un salto in Paradiso, per una volta tanto.

    “Sai una cosa?” fece ad un tratto Freddie, aprendo lievemente gli occhi e osservando il sole calare dinanzi a sé, concentrandosi sugli spruzzi di arancio che la grande stella rilasciava dietro di sé, macchiando il cielo di tenui sfumature rosate, come un abile Picasso su un’immacolata tela azzurra.

    “Cosa?” chiese Roger curioso, senza muoversi o aprire gli occhi giusto un poco. Godendosi il momento.

    “E’ una bella vita, Roger Taylor.” Disse con una punta di malinconia nella voce profonda, e Roger non poté fare a meno di sorridere leggermente, pensando a quanto il suo migliore amico avesse ragione.

    'Cause we made a promise we swore we'd always remember
    No retreat, baby, no surrender
    Blood brothers on a summer's night
    With a vow to defend
    No retreat, baby, no surrender

    Huh ah ah ah ah ah ah
    Huh ah ah ah ah ah ah


    “Non credi sia ora di ritornare indietro?” Roger alzò gli occhi al cielo, chiedendosi perché Freddie dovesse essere così tediante, alle volte.

    “Rilassati, Freddie, ti ho detto che tra poco torniamo a casa. I miei genitori non ci daranno per dispersi, mi conoscono e sanno che mi piace starmene qui per interi pomeriggi.” Spiegò con praticità il batterista, incrociando le braccia dietro la testa.

    “Sarà come dici tu …” asserì Freddie, deciso a non rovinare quel clima di pace in quei erano sprofondati da diversi minuti ormai. D’un tratto Roger si tirò a sedere composto, staccandosi dall’albero alle sue spalle. Si voltò, sentendo su di sé lo sguardo indagatore di Freddie, mentre era intento a passare con delicatezza una mano sulla vecchia corteccia, come ad emulare una vaga carezza.

    “Vedi questa quercia, Freddie?” chiese, lasciando scorrere gli occhi sull’albero che sembrava avere migliaia di anni.

    “Era il mio posto preferito da bambino. Quando ero piccolo venivo sempre qui, sedendomi ai piedi di questo albero, per interi pomeriggi.”

    “E cosa facevi?”

    “Assolutamente niente.” Esclamò sorridendo Roger, ridacchiando tra sé, seguito a ruota da Freddie.

    “In realtà mi piaceva starmene in pace a riflettere e … beh, qualche volta scrivevo anche ciò che mi passava per la testa … ma erano stupidaggini, cazzate varie.” Spiegò il batterista con un velo di malinconia nella voce, tornando serio. Freddie osservò la corteccia in silenzio, con espressione pensierosa.

    “Roger?” lo richiamò dopo diversi attimi, voltando il capo in direzione dell’amico.

    “Dimmi.”

    “Promettimi che non ci arrenderemo mai.” Disse tutto d’un fiato.

    “Eh?” chiese Roger confuso, strabuzzando gli occhi.

    “Prometti solennemente, davanti a questa sacra quercia, che non ci arrenderemo mai, qualunque cosa accada.”

    “Suona un po’ come un giuramento militare.” Osservò Roger leggermente divertito.

    “Fratelli di sangue, mi piace di più. Come due soldati in una notte d’inverno con una promessa da mantenere, pensala così.”

    “E’ una bella metafora.” Osservò Roger.

    “Lo so. Chissà come mai sono sempre io ad avere le idee più belle.” Si pavoneggiò Freddie con irriverenza.

    “Ma smettila!”

    “Roger?”

    “Cosa?”

    “Prometti?” chiese nuovamente Freddie, tornando tremendamente serio. Roger annuì tra sé, accennando un lievissimo sorriso e scoccando un’occhiata alla quercia.

    “Te lo prometto.”




    Now out on the streets tonight the lights are growing dim
    And the walls of my room are closing in
    But it's good to see your smiling face
    And to hear your voice again




    Roger strabuzzò gli occhi, boccheggiando diversi attimi, incredulo. Non si voltò a guardare Brian e John, perché era certo di trovarli nella sua stessa identica condizione, ma cercò piuttosto di concentrarsi su quanto appena udito.
    Non era vero.
    Non poteva essere vero.
    Erano diventati una leggenda, lui era diventato una leggenda. E le leggende non possono essere malate di AIDS.
    Per un attimo percepì i suoi enormi occhi azzurri riempirsi di lacrime, ma il suo inutile orgoglio maschile gli impedì di rigettarle fuori, proprio in quel momento, davanti a loro, davanti a lui. Alzò lo sguardo dal bianco linoleum che si trovava a fissare da minuti di interminabile silenzio, incatenando i suoi occhi blu e colmi di rabbia in quelli scuri e profondi del suo migliore amico.

    “No, non è vero … dimmi che non è vero …” sibilò con voce spezzata ma comunque forte. Freddie distolse immediatamente lo sguardo, imbarazzato, quasi timoroso e pieno di vergogna per ciò che aveva appena detto.

    “E’ vero …” riuscì solamente a dire in un sussurro, rivelandosi agli occhi di Roger, di Brian e di John con una debolezza e una fragilità che mai, mai avrebbero pensato di trovare in lui. Roger serrò i pugni con violenza, scuotendo il capo incredulo.

    “E la nostra promessa? Avevi promesso, te lo ricordi? Avevi promesso …” sussurrò con voce rotta, cercando gli occhi del suo migliore amico e sentendosi tremendamente egoista per quella frase, ma era stato più forte di lui, non ce l’aveva fatta a trattenersi. Freddie lo guardò confuso per lunghi attimi, fino a quando un luccichio brillò sul fondo delle sue iridi neri al ricordo di quella sera di inizio estate ai piedi della quercia millenaria e della promessa che avevano mantenuto sempre, senza mai venirne meno.

    “Ho detto che ho l’AIDS, non che mi arrendo. Credevo fosse scontato questo.” Esclamò con voce ferma ma leggermente tintinnante, scorgendo gli occhi di Roger spalancarsi a dismisura e un’espressione di puro stupore dipingersi nel suo viso.
    Roger non lo aveva ancora capito, forse non lo sapeva nemmeno. Ma è logico, è matematico, è certo. Si sa che le leggende non muoiono mai.


    Now we can sleep in the twilight
    By the river bed
    With a wide open country in our hearts
    And these romantic dreams in our hands




    “Allora?”

    “Allora cosa?”

    “Come ti senti oggi?” Roger puntò gli occhi alle pareti, scorrendo le mura con gli occhi. La casa di Freddie non era mai cambiata, era sempre la stessa, grande e bella. Era la camera da letto ad essere divenuta più utilizzata, si può dire sempre ormai. Freddie non ce la faceva ad alzarsi da quel letto, o se ci riusciva, stava in piedi davvero a fatica. Roger guardò il proprio migliore amico disteso nel grande letto, rannicchiato sotto le coperte e circondato dai suoi amati gatti. Aveva perso molti chili, eccome se ne aveva persi, e il viso, un tempo affascinante e pieno di vita, era ora smunto, pallido, scavato dalla stanchezza e dalla malattia. Pensare alla stella che aveva fatto impazzire milioni di persone in tutto il mondo con la sua voce e la sua energia cozzava terribilmente con l’immagine di quell’uomo solo, chiuso in casa e combattendo inutilmente contro una stupida malattia. Freddie non era che l’ombra di sé stesso ormai, e Roger se ne rendeva conto sempre di più giorno per giorno, quando passava a trovarlo tutti i pomeriggi. Ma Freddie non si arrendeva, con suo enorme stupore, portava avanti quella promessa fatta anni prima ai piedi di una quercia divenuta sacra per la loro amicizia.

    “Sto esattamente come quando me lo hai chiesto ieri alla stessa ora, caro.” Rispose ironico il cantante, ma Roger percepì immediatamente quel velo di tristezza e dolore che aveva arrochito la voce benedetta di quell’uomo.

    “Beh, scusa se mi preoccupo per te.” Borbottò Roger fintamente offeso, cercando di alleggerire il clima in quella stanza che sapeva di medicine e dolore. Freddie sorrise tra sé, sospirando pesantemente. Roger alzò immediatamente la testa, fissando il suo migliore amico. Non era stato un sospiro di stanchezza, dolore o sollievo, come quelli che gli aveva sentito esalare da diversi anni a quella parte. C’era stata solo una volta in cui lo aveva sentito sospirare in quel modo così rilassato, pacifico, sereno e … bello.
    Quella sera d’inizio estate in Cornovaglia, sotto la quercia, non se la sarebbe mai scordata.

    “Sai una cosa?” fece Freddie dopo interminabili minuti di silenzio, catturando l’attenzione di Roger. Il batterista deglutì rumorosamente, in trepidante attesa. Le stesse parole, lo stesso tono.

    “Cosa?” chiese quasi intimidito Roger, temendo di conoscere già la risposta. Freddie gli sorrise sinceramente, mostrando la stanchezza e il dolore che tentava di nascondere sempre al mondo.

    “E’ stata una bella vita, Roger Taylor.” Disse con voce calma, leggermente arrochita dalle lacrime. Roger serrò gli occhi, ricacciando inutilmente indietro le lacrime. Si passò fugace una mano sul volto, strofinando gli occhi con veemenza.

    “Sì, lo so. È stata bella davvero.” Riuscì a dire con voce spezzata il batterista, sorridendo a metà tra le lacrime e guardando Freddie negli occhi. Era stato forse solo in quel momento che Roger si era reso conto di tutto quello che Freddie si stesse tenendo dentro. Tutto quel dolore, la stanchezza, la voglia di lasciarsi andare ma il desiderio di andare avanti, per non venire meno ad una promessa diventata emblema di una vita, glielo aveva letto tutto negli occhi, in quei pochi ma intensi secondi.
    Non seppe nemmeno lui con quale forza riuscì a pronunciare le seguenti parole, quale parte di sé avesse avuto il coraggio di formulare quel pensiero, ma probabilmente era stata più la consapevolezza di non voler vedere Freddie soffrire in quel modo che portare avanti un egoistico desiderio di vita eterna, a fargli vedere la realtà in faccia, chiara com’era a tutti ormai.

    “S – sai, puoi arrenderti se vuoi. Io non ti dico niente …” balbettò con un filo di voce, spostando lo sguardo altrove. Freddie sorrise amaro, torturandosi le mani divenute scheletriche.

    “Lo so. Aspettavo solo che fossi tu a dirlo …”



    'Cause we made a promise we swore we'd always remember
    No retreat, baby, no surrender
    Blood brothers on a summer's night
    With a vow to defend
    No retreat, baby, no surrender



    “Non ci arrendiamo, va bene?”

    “Va bene, non ci arrendiamo mai. L’ho giurato su questa quercia, e io ci credo alle promesse tra fratelli di sangue.”

    “Lo so. Nessuna resa?”

    “Nessuna resa. Mai.”

    No retreat, baby, no surrender
     
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